Nuoto e disabilità: aspetti psicologici
Diego Polani, Isabella Ottavi
(Cattedra di Psicologia dello Sport, Facoltà di Medicina di Firenze, corso di Laurea in Scienze Motorie)
LA CURA DEL CORPO O IL CORPO CHE CURA? Analogie fra approccio terapeutico e approccio sportivo
«Quando un uomo canta e non riesce ad alzare la voce e arriva un altro e canta con lui, un altro che può alzare la voce, anche il primo sarà in grado di alzare la voce. Questo è il segreto dell'unione degli spiriti» (Martin Buber)
Parlando di cura del corpo nel caso di persone disabili, viene spontaneo riferirsi ad un corpo malato, menomato, oggetto di cure mediche ed anche il titolo di questo convegno «Lo sport come evoluzione della terapia» può evocare l'immagine di un corpo oggetto da curare.
Terapia fa pensare alla cura, spesso intesa soltanto in termini eliminazione della patologia, ma curare è anche «prendersi cura di», come una madre si prende cura del suo bambino. Osservando l'interazione corporea terapeuta/paziente e istruttore/allievo, vengono in mente quelle che Winnicott, psicoanalista inglese, definisce le tecniche di «holding» per esprimere il modo in cui la madre tiene il suo bambino e lo sorregge e di «handling», il modo di accudirlo e di maneggiarlo. Il tatto è il primo dei nostri sensi, è quello che occupa la maggior parte della superficie del nostro corpo e mobilita da lontano il maggior numero di terminazioni nervose. Se si osserva la rappresentazione corticale del corpo, l'homunculus, ci si accorge che circa 1/3 della sua superficie è occupata dalla mano e dalle dita ed 1/3 dal volto. La porzione residua di spazio è riservata al resto del corpo. Ma il tatto, o meglio il contatto cutaneo, inteso come toccare globale con tutto il corpo, come hanno dimostrato numerosi studi sull'attaccamento (Bowlby, Spitz, Harlow, Kohler e altri), assolve, oltre alla funzione di definizione dello schema corporeo, anche ad un altro importante bisogno dell'individuo: il contatto emotivo, fondamentale per un armonico sviluppo psico-fisico.
Gli esperimenti di Harlow sulle scimmie hanno dimostrato la validità di questa affermazione, infatti tra una madre di filo di ferro provvista di biberon ed una di pelouche, senza cibo, sceglievano la seconda. Pertanto il tatto resta il senso prevalente nella prima infanzia ed è precedente all'acquisizione della parola, infatti nei gravi disturbi di personalità questa modalità arcaica di funzionamento psichico permane anche negli stadi di sviluppo successivi.
E' per questo motivo che viene privilegiato il contatto corporeo rispetto alla parola in psicoterapia della Gestalt e si lavora con tecniche espressivo-corporee (musica, arte, danza, movimento, sport) quando ci si trova in presenza di una psicopatologia grave o di un handicap.
Molto si parla di terapia, ma poca attenzione viene dedicata al valore terapeutico della relazione, sottendendo nel concetto stesso di rel-azione, azione collegata, la riattivazione dell'energia vitale, precedentemente bloccata a causa dell'handicap o del disagio psichico, che diventa energia di cura.
Si può paragonare il rapporto terapeuta-paziente e istruttore-allievo con l'acqua che in due vasi comunicanti scivola da uno all'altro con un movimento armonioso e continuo, riempiendo i vuoti e svuotando i pieni.
Oggi si parla molto di ecologia, di terapie naturali, ma quali terapie più naturali di quelle che coinvolgono direttamente il corpo? E quale luogo terapeutico può essere considerato più naturale se non l'acqua?
Nello sport come in psicoterapia si lavora su principi semplici, con materiali fisiologici: il peso del corpo, l'equilibrio/disequilibrio, la relazione respiro/movimento.
Movimento inteso non più solo nelle sue componenti meccaniche e dinamiche, ma come espressione di una corporeità globale, includendo nel concetto di globalità anche le componenti psichiche e relazionali.
E' l'emozione il carburante del movimento, il terapeuta come l'istruttore, seppure in ambiti diversi e con modalità differenti, stimola la consapevolezza del gesto anziché istruire sulla tecnica, pertanto la terapia si trasforma in una pratica di guarigione attraverso il movimento.
I più recenti studi di neuropsicologia e psicologia cognitivista hanno dimostrato che la memoria è prima sensoriale e motoria che cognitiva e che le sensazioni corporee favoriscono la creazione di immagini. Immagini cenestesiche, le prime a crearsi che forniscono informazioni sulla posizione del corpo nello spazio e sul movimento ed immagini mentali che conservano la memoria di tutti gli accadimenti della nostra vita. In altre parole, non si risponde agli eventi per quello che sono attualmente, bensì alla rappresentazione mentale degli eventi stessi, all'immagine che se ne conserva nella memoria.
Se ne deduce quindi, che l'immagine è la rappresentazione mentale di un oggetto esterno che diventa interno, è l'effetto di un processo di interiorizzazione. Quando c'è un blocco emozionale o un sintomo c'è il tentativo di evitare il contatto con eventi considerati minacciosi, che inducono aspettative catastrofiche a causa di interiorizzazioni negative (giudizio, umiliazione frustrazione).
Nella vita ogni effetto è determinato da uno schema di pensiero che lo precede e lo perpetua; la rappresentazione mentale che si ha di noi stessi e della realtà influenza le nostre esperienze e fa sì che si ripetano, è come un circuito chiuso; modificando questa rappresentazione mentale si possono modificare le nostre esperienze (causalità metafisica) e trasformare il malessere in benessere.
In psicoterapia e nello sport si cerca di creare un ponte, mediante il movimento, con quegli eventi considerati minacciosi. Laddove è intervenuta una rottura (anatomica o psicologica), quando mente e corpo hanno perso la capacità di comunicare è necessario un ri-collegamento, un ri-specchiamento. E' necessario allora parlare una lingua più antica, quasi dimenticata, il linguaggio del corpo, per creare un contatto con qualcuno che vive nel caos incontrollato del proprio corpo o della propria mente (si pensi ad esempio ad alcune malattie neurologiche che producono spasmi e reazioni motorie incontrollate o alla psicosi o alla schizofrenia) e permettere all'altro di trovare e di afferrare, nel corpo del terapeuta o dell'istruttore un filo sottile a cui aggrapparsi per esprimere, portare fuori ciò che a lungo è rimasto inespresso.
Nel caso di un disabile o di un individuo con disagio psichico ciò che rimane inespresso è il piacere, soprattutto del corpo.
Lo sport o il movimento esperito direttamente nel setting terapeutico consentono a coloro che, a causa di problemi fisici o psicologici, si sono allontanati dal corpo per rifugiarsi in un mondo evanescente, di riconoscersi nuovamente come corpo, di riappropriarsi del corpo e mediante il corpo proprio e del terapeuta o dell'istruttore avventurarsi verso l'esplorazione del mondo circostante. Il movimento è diventato per il paziente o per il disabile motivazione per guarire.
Terapeuta e istruttore, seppure agiscano con strumenti diversi e su piani diversi si assomigliano, perché non impongono una disciplina, ma accompagnano la persona, a volte dirigendo e a volte assecondando la relazione.
Per-sona, dice F. Perls il fondatore della psicoterapia della Gestalt, ascoltare il suono non le parole, ascoltare la vibrazione, l'emozione nostra e dell'altro e permettere all'altro di sentire la nostra come in un atto d'amore.
Amore, dice Sartre, è com-passione, è patire la carnalità dell'altro, soffrirne la presenza anche corporea, è accettare di essere emozionati ed emozionabili anche come istruttori o terapeuti.
Soltanto se terapeuta e paziente, istruttore e allievo, al di là degli inevitabili elementi trasferenziali, ingaggiano un rapporto «umano» come persone «reali», reciprocamente interessate-interessanti, l'incontro diventa un valido elemento di «cura».
IL CORPO NEL PORTATORE DI HANDICAP FISICO
Il corpo nella persona con handicap fisico subisce notevoli modificazioni in negativo, pertanto l'immagine di sé ne risulta pesantemente condizionata anche rispetto alla limitazione fisica e di movimento conseguente.
Lo schema corporeo di una persona non è innato, si sviluppa dalla nascita all'età adulta per stadi successivi: all'inizio vi è un certo grado di confusione e l'incapacità di evocare la propria immagine, successivamente, nella prima e seconda infanzia, si cominciano ad acquisire quegli elementi che consentono al termine dello sviluppo somatico di integrare tutte le sensazioni esterocettive, propriocettive, cenestesiche che mandano informazioni rispetto a come il corpo si posiziona e si muove nello spazio.
Alla formazione dello schema corporeo contribuiscono anche altri fattori legati all'affettività, come ad esempio il contatto con la madre che, all'inizio della vita, è prevalentemente corporeo. Bowlby, Spitz e le teorie dell'attaccamento hanno messo in evidenza la centralità del contatto nel legame affettivo madre-bambino; il modo in cui la madre favorirà od ostacolerà l'esplorazione successiva dell'ambiente e quindi la soddisfazione dei bisogni del bambino influenzerà le relazioni successive.
L'Io corporeo esprime quindi un duplice livello di integrazione:
il vissuto del corpo e la sua rappresentazione
l'impegno dell'Io nell'azione.
Nel disabile fisico adulto, si viene a ricreare una situazione analoga a quello del bambino, soltanto che non sarà la madre ad influenzare la possibilità dei contatti successivi, bensì l'handicap: alcune sensazioni relative al dolore o al piacere gli sono precluse, alcuni dolori diventano abituali o comunque più frequenti, alcune sensazioni muscolari o di movimento articolare sono assenti dalla nascita o sono scomparse improvvisamente.
L'immagine di sé sotto il profilo affettivo risente quindi delle limitazioni psico-fisiche derivanti dall'avere un corpo imperfetto ma anche dalla risposta che ne deriva nel contesto sociale, viviamo in una società competitiva, improntata all'efficienza, in cui una persona con disabilità trova scarsa considerazione.
Il corpo, comunque, indipendentemente dall'handicap, rappresenta la possibilità di esistere fino in fondo, dà il senso del limite ( ci ricorda che siamo finiti nel tempo e nello spazio), è un confine fisico con l'ambiente, riflette il bisogno di stare nei confini, ma anche quello di esplorare cosa c'è fuori, di sperimentare il contatto con l'altro.
Importante è non fissare confini troppo rigidi o poco definiti, trovare una via di mezzo per poter entrare ed uscire dai propri confini senza perdersi., vivere il corpo con amore, accettarlo per quello che è, anche con l'handicap, a prescindere dalle prestazioni, non considerarlo come un involucro ma reinserirlo in un contesto esistenziale più ampio superando la scissione.
Parlando di corpo nel caso di persone disabili, si dovrà fare necessariamente riferimento anche agli ausili tecnici di cui si avvale (protesi, carrozzina, tutori). Questi supporti, attraverso il contatto con il corpo, inviano al cervello informazioni di tipo propriocettivo che vengono poi rielaborate e riproposte in termini di nuovi schemi motori, pertanto il corpo del disabile diventerà, ai fini del movimento, una totalità integrata di carne, ossa, muscoli e strumenti meccanici che compenseranno le mancanze.
Nella disciplina del nuoto, l'elemento acqua si sostituisce agli ausili nello svolgere funzione di sostegno;. il disabile sperimenta la completa libertà di movimento del proprio corpo, il piacere fisico derivante dal contatto con l'acqua e dal rilassamento degli spasmi e delle contrazioni, con conseguente rafforzamento dell'autonomia negli spostamenti.
La seconda fonte di sostegno per il disabile in acqua è l'istruttore, il quale provvederà a creare un clima di sicurezza e di fiducia che consentirà al bambino o all'adulto di seguirlo anche nelle situazioni ritenute più rischiose o più pericolose.
Parlando del corpo del disabile è necessario far riferimento anche al corpo dell'operatore. Il metodo Mac Millan, attualmente usato per l'avviamento all'acquaticità dei soggetti disabili, prevede la presenza di un istruttore per ogni allievo e si basa sul contatto fisico tra istruttore e allievo: il bambino sperimenterà il movimento in acqua poggiandosi sul corpo dell'operatore. Il contatto corporeo è fonte di piacere, ma quando si tratta di un corpo mutilato, imperfetto, possono insorgere sensazioni di sgradevolezza o reazioni di disgusto con conseguente rifiuto del contatto stesso. E' perciò importante che anche l'operatore o il tecnico sportivo siano consapevoli, momento per momento, delle proprie sensazioni corporee, delle emozioni o delle fantasie anche aggressive che dal contatto derivano per poterle affrontare e superare al fine di instaurare un clima relazionale di fiducia e accettazione reciproca oppure divenire consapevole dei propri limiti e rifiutare la presa in carico di persone disabili.
IL MOVIMENTO
Parlando di movimento nelle persone disabili, è importante distinguere se l'handicap è congenito oppure acquisito.
handicap congenito:
La persona, limitata dall'handicap fin dalla nascita in alcune sue espressioni fisiche, avrà elaborato schemi motori alternativi sostituendo i movimenti impossibili da eseguirsi con altri che utilizzano le parti valide del proprio corpo.
Si trovano spesso associati alle limitazioni motorie anche dei deficit primari nello sviluppo cognitivo, imputabili alla lesione in aree cerebrali deputate alle funzioni cognitive superiori (es. linguaggio) e secondari, conseguenti alle limitazioni motorie imposte dall'handicap, soprattutto nei casi di tetraplegia, poiché questa interessa tutti gli arti in modo molto grave.
Le teorie sullo sviluppo infantile, in particolare quelle di Bruner e di Piaget, affermano, infatti, che la formazione della conoscenza nel bambino avviene in due fasi successive: la prima riguarda la costruzione degli schemi percettivi e motori, la seconda consente di integrare questi schemi e la formazione dei concetti.
Nella prima fase, definita esplorativa, il bambino riconosce le caratteristiche fisiche degli oggetti (formazione di categorie percettivo-visive) abilità che gli consente di formulare ipotesi formali sugli oggetti stessi (il bicchiere è cilindrico).
In una fase successiva gli schemi percettivi saranno integrati con gli schemi d'azione, consentendo al bambino di acquisire i concetti, di individuare le caratteristiche funzionali degli oggetti ed il nucleo funzionale di tutti gli oggetti appartenenti ad una medesima categoria bicchiere e tazza: oggetti che servono per bere).
La possibilità di manipolare ed esplorare gli oggetti per ottenere informazioni sull'ambiente circostante, condiziona la formazione della conoscenza nei primi anni di vita del bambino, ne consegue pertanto che le operazioni intellettuali originano da azioni reali e che anche i processi inferenziali (base della conoscenza astratta) sono legati all'atto motorio.
Attraverso l'esperienza motoria, inoltre, il bambino costruisce la propria esperienza soggettiva, base per lo sviluppo successivo della personalità che si costruisce grazie anche alla conquista da parte del bambino, della piena padronanza del corpo, della gestualità, delle proprie azioni.
Una tappa fondamentale dello sviluppo psicologico del bambino è l'organizzazione della propria identità, strettamente connessa alla possibilità di percepirsi separato dal corpo della madre. Frequenti infatti sono le situazioni in cui i bambini disabili manifestano eccessiva dipendenza ed intolleranza a qualunque forma di separazione dalla madre, con la quale vive un rapporto di fusione-confusione senza avere coscienza dei propri limiti.
Per quanto riguarda l'ambiente familiare della persona con tali disabilità, c'è da dire che spesso la famiglia tende a mantenere l'individuo in uno stato di dipendenza, anche sostituendosi a lui in alcune situazioni, scoraggiando in tal modo l'autonomia e quindi la scoperta di altre potenzialità sia a livello fisico che psicologico.
L'avviamento all'attività motoria, per questi bambini, pertanto, riveste un ruolo di primaria importanza anche per quanto riguarda lo sviluppo psicologico e la progressiva conquista dell'autonomia.
Innanzitutto la necessità di allontanarsi fisicamente dal nucleo familiare, favorisce la prima separazione (fisica) dalla figura materna, in secondo luogo, in piscina o in qualunque altro luogo deputato a questa attività, il bambino avrà l'opportunità di relazionarsi anche con il mondo esterno (istruttore, gruppo di pari), oltre che con il proprio mondo interno integrando le parti malate del proprio corpo con la scoperta di nuove possibilità che contribuiscono all'accettazione di sé anche come esseri imperfetti.
b) handicap acquisito:
In conseguenza del trauma subito, subentrano, a livello psicologico, depressione e senso di impotenza derivanti dal senso di insufficienza vitale e dalla perdita di alcune importanti funzioni. C'è una perdita immediata di autonomia, l'intera vita dell'individuo dalle azioni più semplici, come camminare, mangiare, guidare la macchina, ecc., alle relazioni sociali è gravemente compromessa.
Egli torna, da adulto, in una situazione di dipendenza infantile. Come un bambino molto piccolo, l'handicappato, nella fase della riabilitazione, ritorna totalmente dipendente dall'ambiente circostante per quanto riguarda la soddisfazione dei, propri bisogni, non solo primari, ma anche di calore, affetto, sostegno con conseguente diminuzione dell'autostima.
L'avviamento alla pratica sportiva per questi soggetti, passa necessariamente per la riabilitazione, la cosiddetta "sport-terapia".
Questa pratica rieducativa di tipo psicomotorio consente al soggetto di trasformarsi da oggetto della riabilitazione a soggetto dell'azione.
Attraverso lo sport egli può sperimentare nuovamente a livello fisico la gratificazione che deriva dal sentire i propri muscoli, validi, capaci di offrire sostegno e produrre movimento. A livello psicologico ciò significa "sono di nuovo vivo, esisto, posso" e aiuta a riacquistare la stima di sé diminuita conseguentemente al trauma subito.
Nell'uno come nell'altro caso, lo sport consente di recuperare il movimento perduto o imperfetto in modo giocoso e divertente, di sperimentare nuove modalità di esplorazione dell'ambiente e di relazione nonostante la situazione di svantaggio.
L'esplorazione, come per i bambini, è eccitante ma comprende anche una certa dose di rischio, perché non tutte le situazioni o le persone che si incontrano sono positive. Inoltre, sussiste il ricordo del trauma o delle umiliazioni sociali subite e l'individuo oscilla tra desiderio di autonomia e bisogno di sicurezza che può portarlo a rifugiarsi nell'handicap anche in seguito ai condizionamenti familiari subiti.
Con l'allenamento sportivo, egli impara ad allenare se stesso anche sul piano psicologico, gli esercizi, gli allenamenti, gli sforzi per apprendere e migliorare il gesto tecnico, infatti, non sono fini a sé stessi ma in funzione di un obiettivo: la riuscita in gara, e richiedono la partecipazione simultanea di tutte le esperienze motorie e sensoriali, ma anche cognitive ed emozionali, consentendo all'individuo la possibilità di ritrovare valori, motivazioni, scopi, mete, specialmente se l'attività sportiva è di tipo agonistico.
Si può paragonare lo sport ad un setting terapeutico: all'interno di uno spazio protetto, è possibile confrontare con altre persone, aventi le stesse o simili problematiche, le proprie paure, ansietà frustrazioni ed errori, ma anche scoprire interessi, obiettivi e nuove mete.
Si sperimentano così nuovi apprendimenti rispetto a se stessi che saranno riproposti nella vita quotidiana, fuori dal setting o dall'ambito sportivo, con la conseguenza di una maggiore autonomia psicologica.
L'handicap sarà sempre presente, ma attraverso le attività natatorie verrà inquadrato in una prospettiva più ampia: ognuno di noi ha parti positive e parti negative che non gli piacciono, ma in questo modo si impara ad accettarle come componenti della propria esperienza e a conviverci allo stesso modo che con quelle positive.
In sport sia altamente tecnici che ciclici, quale il nuoto, è di notevole importanza, per gli allenatori ed istruttori, dedicare grande attenzione allo studio delle tecniche corrette di esecuzione degli esercizi al fine di conoscerle e, quindi esporle ai propri allievi. Spesso, però, non viene data molta importanza alle strategie che il tecnico deve mettere in atto per migliorare la sua metodologia di insegnamento. Il tecnico non è solo un conoscitore degli esercizi ma è colui che escogita soluzioni al fine di ottimizzare ed accrescere sia la tecnica che la consapevolezza dell'allievo. L'importanza di una metodologia dell'insegnamento è fondamentale al fine di adeguare gli interventi alle caratteristiche ed alle necessità degli allevi.
Con questo lavoro si vuole dare una visione generale degli aspetti più importanti, dal punto di vista psicologico, legati all'apprendimento ed all'insegnamento.
I PROCESSI MENTALI
I processi mentali sono tutti quei meccanismi che il cervello umano mette in atto per recuperare informazioni dall'ambiente interno od esterno a se, quindi analizzarle e compararle con altre già memorizzate al fine di decidere, in base agli scopi che ci si è preposti la risposta motoria più adatta da emettere.
In fase d'apprendimento in psicologia cognitivista, si parla di teorie motorie della mente ossia di quelle teorie che evidenziano l'elaborazione attiva dell'informazione, dove i fattori principali legati all'attività mentale non sono più visti come un'acquisizione passiva degli stimoli ambientali, ma, al contrario, come un incessante processo di confronto attraverso il quale l'ambiente viene continuamente aggiornato dagli "input" di entrata. In poche parole l'esecuzione di un movimento non avviene passivamente (input-output), ma tramite l'elaborazione attiva dell'input, la costruzione della risposta motoria e l'output finale. Si può affermare che è un funzionamento basato su processi di feed-forward e di feed-back, dove l'informazione per essere efficace deve essere "confrontata e verificata con l'attività neurale centrale spontanea o corollaria".
I nostri organi sensoriali sono quindi forniti di un meccanismo anticipatorio, definito feed-forward, per cui concorrono alla costruzione della percezione con la possibilità di correzione, o feed-back, più o meno rapida. Gli stimoli ambientali, così, vengono ricercati attivamente con una costruzione dei dati percettivi mantenendo, altresì, una propria autonomia evolutiva.
Le teorie appena enunciate suggeriscono il fatto che l'esistenza di andamenti cognitivi preconsci, con funzioni anticipatorie, sono tali da facilitare la successiva focalizzazione dell'attenzione selettiva cosciente.
In poche parole si attuano tutti quei processi mentali, ossia quei meccanismi che il cervello umano mette in atto per recuperare le informazioni dall'ambiente, al fine di confrontarli in base alla propria autoreferenzialità. Infatti Si sa che alcune informazioni sono preprogrammate nel nostro bagaglio genetico, altre sono acquisite con l'eperienza.
Ma essenzialmente si sa che tutte queste informazioni acquisiscono valore in base alla realtà soggettiva che ognuno di noi si costruisce essenzialmente in base alle emozioni che si vivono di volta in volta. Emozioni negative danno input negativi ed emozioni positive danno input positivi. Emozioni ed input, quindi, interagiscono al fine di costruire la realtà del soggetto, e questo è di basilare importanza per comprendere totalmente le leggi dell'apprendimento. Un tecnico deve sapere che i risultati dell'insegnamento spesso dipendono dalla soggettività del singolo allievo.
L'attività cognitiva dell'uomo è, quindi, vista come un'elaborazione attiva dell'informazione. Si sa, anche, che l'elaborazione dell'informazione, caratteristicamente, è estremamente flessibile, ossia si può scegliere lo stimolo da elaborare e, quindi, decidere come elaborarlo.
Si pensa che l'attenzione si comporti in maniera assai simile ad un filtro, elemento che lascerebbe passare esclusivamente l'informazione che proviene dal canale sul quale e stato sintonizzato per permetterne l'elaborazione. Nel gioco complesso che viene attivato al fine di elaborare risposte motorie adeguate all'ottenimento del gesto motorio si devono inoltre considerare gli aspetti non certo minori che vengono esercitati dal funzionamento della memoria. Quando parliamo di memoria scopriamo che la stessa non viene utilizzata esclusivamente nelle operazioni che implicano il riconoscimento degli stimoli in entrata oppure nelle operazioni decisionali necessarie nell'attività motoria, ma anche come mezzo di conservazione dei programmi motori (memori a lungo termine) e di controllo dei movimenti (memoria a breve termine). In poche parole quando un allievo riceve degli stimoli, questi passano in prima istanza attraverso una prima memoria definita sensoriale, che dura circa 200/300 ms, per poi passare nel magazzino di lavoro, o memoria a breve termine (circa 20"), per organizzare la risposta motoria più adatta. La ripetizione in allenamento di tale situazione crea una nuova serie di stimoli che verranno immagazzinati nella memoria a lungo termine. In allievi giovani ed inesperti notiamo che la velocità di elaborazione di tali stimoli è molto più lenta di quella effettuata da atleti più esperti.
Questo avviene, in parte, perché gli stimoli immagazzinati nella memoria a lungo termine vengono recuperati con più difficoltà ed in parte per l'incapacità di riconoscere ed elaborare lo stimolo acquisito.
Più si diventa padroni del movimento più si vedrà che il susseguirsi di tali movimenti diventa, a quel punto, automatico, come quello di un musicista che non segue il movimento delle sue mani ma l'intera melodia. Si ha, in poche parole, una concentrazione sull'azione globale della prestazione, che altro non è che l'esecuzione automatizzata dei movimenti annullando del tutto l'attenzione sui movimenti in maniera analitica.
Risulta, inoltre, rilevante ed interessante conoscere ciò che l'allievo sente, pensa od immagina nel momento in cui sta eseguendo il suo gesto tecnico. In poche parole capire cosa effettivamente sta sotto il suo controllo cosciente e che cosa viene eseguito automaticamente, su quali percezioni egli si basa durante la valutazione della propria prestazione, e come venga realizzato nell'insieme il controllo sui movimenti.
LE MOTIVAZIONI
Per quanto la motivazione a fare sport deve essere presente nel profondo di un atleta, che ad essa può ricorrere nei momenti di difficoltà, in quanto sempre sua alleata.
Per motivazione si può intendere la causa di un comportamento, ossia ciò che può determinare il manifestarsi, la forza, la direzione e la persistenza di un comportamento. Termini, comunemente usati, quali bisogni, istinti, motivi, desideri, ecc., sono indicati spesso per spiegare le azioni di un individuo. Si ritiene, quindi, che i motivi e le emozioni provvedano ad incentivare l'impulso ad agire.
Le motivazioni originano dai bisogni dell'essere umano e quelle che spingono a praticare sport, sono le stesse che sostengono l'individuo nel suo sviluppo psicologico. Maslow, psicologo umanista, ha ipotizzato una graduatoria dei bisogni mettendo al posto più alto il movimento:
movimento: l'esigenza di cambiare la posizione nello spazio
fantasia: l'esigenza di immaginare, rappresentare, sognare ad occhi aperti
costruzione: il bisogno di uno scopo da perseguire per lasciare una traccia del proprio passaggio
esplorazione: l'esigenza interiore di ricerca di situazioni nuove e stimolanti
avventura: la necessità di provare cose nuove, in parte rischiose che generano anche conflitti e tensioni emotive e comportano capacità di impegno, sforzo, coraggio
affermazione: la necessità di ottenere successo e gratificazioni personali
aggressione: l'esigenza di emergere, dominare, prevalere sull'altro inteso come estraneo contrapposto a sé
nutrizione: bisogno legato alla sopravvivenza
sessualità: il desiderio di conoscere, di avere rapporti ed intimità con un partner
socialità: il bisogno di avere rapporti con gli altri.
Tutte queste motivazioni vengono vissute inconsciamente nello sport, in particolare il movimento, il gioco, l'aggressività competitiva.
In campo sportivo le motivazioni sono molteplici e spesso si intersecano fra di loro.
Gli aspetti principali sono riconducibili al bisogno di movimento, ossia il ricercare soddisfazione attraverso le sensazioni cenestesiche, ed al bisogno di affermazione.
L'affermazione di se stessi, per mezzo dello sport, può esprimere il bisogno di trovare il senso della propria esistenza, diventare consapevoli dei propri limiti, restituire al corpo la sua importanza, potersi imporre sugli altri, aver prestigio.
Due sono le grandi classi di studio motivazionale nello sport: le motivazioni primarie e le motivazioni secondarie.
Nelle motivazioni primarie si riconoscono il gioco e l'agonismo, tra le attività maggiormente gratificanti per l'uomo. Il gioco è un'attività fondamentale ed è comune a tutti gli individui. A livello biologico aiuta a ripristinare l'equilibrio neuro-dinamico mediante una scarica motoria, risultando come un'attività libera e piacevole, che aiuta lo sviluppo di tutte le componenti psico-fisiologiche dell'uomo.
L'agonismo risponde all'esigenza di misurarsi con la natura, con se stesso e con gli altri.
Accanto agli aspetti primari, per quanto riguarda la motivazione sportiva, si presentano fattori secondari, il cui grado di presenza e significato varia da atleta ad atleta in base alla sua personalità ed al suo essere disabile o no.
Possono essere identificati come:
1) fattori psico-biologici: hanno origine dalla costituzione dell'individuo, ossia dalle sue funzioni psico-vegetative. Sono divisi in omeostatici, ossia finalizzati a ripristinare l'equilibrio neuro-dinamico, ed autoplastici, connessi ai processi di crescita somatica.
2) fattori psico-patologici: aiutano il liberarsi di tensioni e conflitti intrapsichici. Sono suddivisi in: complesso di virilità, il desiderio di conformarsi ai modelli proposti come ideali dai media e dai luoghi comuni; narcisismo, smisurato amore verso se stesso; desiderio di potenza, opposizione agli altri attraverso l'ipertrofia del Sé per superare un senso di inferiorità; sentimento d'inferiorità, tentativo di compensare alcuni deficit di natura fisica o psichica con l'attività sportiva.
3) fattori socio-culturali: affiliazione, voglia di appartenere ad un gruppo; approvazione sociale, gratificazione dell'individuo all'interno del suo gruppo sociale; achievement, bisogno di affermazione come necessità di autorealizzazione; fattore economico, riconoscibilità del successo raggiunto attraverso il denaro; mobilità sociale, bisogno di elevazione sociale attraverso lo sport.
4) fattori psicologici: espressione di motivazioni strettamente collegate con gli aspetti emotivi di ogni individuo affettivi, comunicativi, individualizzanti, proiettivi, catartici, etici ed estetici. L'atleta interagendo con l'ambiente e con le proprie emozioni influenza le sue scelte di vita.
E' dimostrabile che una parte importante della pratica sportiva è principalmente in funzione della motivazione interiore e che quest'ultima risulta favorita da condizioni che stimolano l'autonomia o l'autodeterminazione.
Allo scopo, infine, di definire soggettivamente il successo o la motivazione intrinseca in ambito sportivo, è stata rilevata l'interdipendenza teorica ed empirica tra la prospettiva degli obiettivi, o modi, per giudicare la competenza di ognuno. Obiettivi orientati al compito incrementano la motivazione intrinseca, mentre obiettivi ego-orientati stimolano una riduzione della motivazione estrinseca.
IL GIOCO COME ELEMENTO PSICOPEDAGOGICO
"... nel momento dell'azione, descrisse Ulrich, succede così: i muscoli e i nervi scattano e combattono insieme con l'Io; e questo - cioè il complesso di corpo, anima, volontà, insomma l'individuo nel suo insieme così come è definito e delimitato dal diritto civile - viene da nervi e muscoli preso su e trasportato leggermente, come Europa in groppa al toro; se così non è, se per disavventura il più piccolo raggio di riflessione attraversa quel buio, l'impresa fallisce sicuramente" (R. Musil).
Così, forse per la prima volta nella storia, Robert Musil, nella sua opera migliore L'uomo senza qualità, rendeva l'immagine dell'attività sportiva, anche sotto l'aspetto psico-sociologico, pur mantenendone, un'esposizione assai lontana dall'attuale scientificità d'approccio anche se sul piano linguistico categoriale.
Benché il significato dell'attività sportiva sia andato gradualmente modificandosi e specializzandosi, con il mutare delle società nel corso della storia, ha sempre avuto una valenza assai importante. Fin dalla sua prima comparsa l'uomo dovette imparare ad usare il suo apparato anatomico per adattarsi a luoghi sempre diversi e difficili, anticipando e controllando i movimenti dal punto di vista motorio, in modo che risultassero sicuri e sufficientemente agili. Tutto ciò aiutò l'ulteriore formazione dei sensi quali quello ottico e cenestesico e lo sviluppo delle capacità coordinative. Lo sport altro non era che un ripetersi di gesti giornalieri che simboleggiavano la caccia o la guerra.
Negli anni moderni lo sport ha vissuto svariate modificazioni. Basti pensare che sino a pochi anni fa lo sport era solo considerato quale veicolo di forza e di sviluppo narcisistico del proprio corpo. Infatti non a caso negli anni 30 in occasione delle XI Olimpiadi (Berlino, 1935), De Coubertin in un suo discorso dichiarò che "non si può essere seguiti se ci si adopera a sviluppare l'educazione fisica in nome dell'igiene e dell'estetica".
In tempi più recenti si è passati a vivere lo sport in funzione di aspettative meramente economiche portando lo sportivo a cercare in maniera ossessiva la vittoria con un aumento di pratiche non consone, quali il doping, alla reale filosofia del mondo sportivo.
Eppure lo sport, pratica che distingue ulteriormente l'uomo dalle altre specie animali, altro non è che l'espressione ottimale dei ritmi motori ed è di vitale importanza specie in quegli esercizi dove esiste una composizione plurima di fasi: ossia una successione di combinazione di movimenti.
Riprendendo e ribaltando il discorso di De Coubertin, si può dire che, a livello psicosociale, lo sport aiuta a sviluppare il corpo umano in nome dell'igiene e dell'estetica (intesa come qualità della vita). Sicuramente l'evoluzione delle capacità motorie è legato allo sviluppo dell'attività cerebrale, così come si può osservare nei primi giochi dei bambini che si confrontano con il mondo esterno facendolo oggetto della loro attività cognitiva.
Essendo lo sport una forma di gioco, caratterizzato da finalità agonistiche, non si può esimersi dall'analizzarlo, anche se non in maniera esaustivamente completa.
Il gioco, che è una delle motivazioni primarie e fondamentali dell'atleta, è stato per anni erroneamente relegato, dal pensiero comune, tra le attività esclusive dell'infanzia. Invece è un esigenza fondamentale per ogni essere umano indipendentemente dalla sua età o dalla sua cultura. Benché non sia facile definirlo si può, comunque, affermare, così come scrive Kant, che il gioco è piacevole in quanto si sottrae alle categorie temporali e quindi si contrappone all'attività lavorativa.
Il gioco, e quindi anche il gioco sportivo, ha una duplice funzione nella vita dell'individuo: da un lato esso rappresenta un mezzo di scarico delle energie fisiche e nervose attraverso l'attività motoria, dall'altro svolge una funzione terapeutica, come molti autori (Jung, Klein, Moreno, Perls, Polster) hanno sottolineato. Esso è uno strumento proiettivo, giocare vuol dire rappresentare, far presente, esporre, esternare, è come portare in scena una rappresentazione, permette l'espressione di pulsioni e fantasie e quindi il passaggio dall'isolamento dell'inconscio al contatto con l'ambiente, quindi alla relazione sociale dell'Io.
Il gioco osservato dal punto di vista fisiologico risulta positivo in quanto, grazie ad una liberazione di surplus energetico mediante una scarica motoria, ristabilisce l'equilibrio neuro-dinamico in modo da ottenere uno stato di quiete e, di conseguenza, la propulsione a ricercare nuovi stimoli.
Visto sotto altri aspetti lo si può definire un'attività che sviluppa la fantasia, come forma di espansione della personalità, un momento piacevole, in quanto si gratificano esigenze molto profonde di natura affettiva. In poche parole il gioco ha una notevole importanza educativa in quanto gli è affidato l'impegnativo compito di assecondare e promuovere i processi di maturazione dell'individuo. Osservandolo dal punto di vista psicodinamico possiamo affermare che il gioco, così come i sogni, può realizzare quei bisogni interni che nell'andamento quotidiano della vita devono essere rimossi o differiti nei loro appagamenti. Infatti l'attività ludica tende a realizzare quello spazio estremamente privato e fantastico senza sottomettersi alla formalità del quotidiano. E' qui che è possibile realizzare, avvalendosi della propria espressività corporea e di oggetti tra i più svariati, i contenuti più profondi del proprio inconscio. Per questo in fase evolutiva acquisisce un'importanza fondamentale sia a livello cognitivo che formativo ed affettivo. Sotto l'aspetto psico-pedagogico si è notato che i bambini, che spesso vengono frustrati nella loro immaginazione dall'educazione classica, apprendono meglio se vengono loro riconosciuti gli interessi ed il loro spazio vitale. Tramite il gioco crescono la creatività e l'intelligenza. In poche parole il gioco è il terreno privilegiato dove affondare produttivamente le radici del processo di apprendimento. Infine il gioco è anche lo strumento per far crescere socialmente il bambino.
Quando il bambino si trova fuori dai contesti famigliari incontra coetanei che hanno la sua stessa energia e gli stessi problemi, ed è con loro che inizia a vivere nuove esperienze e nuovi legami affettivi. E' il modo naturale per iniziare ad emanciparsi dai genitori e per trovare nuove realtà al di fuori della sfera ristretta della famiglia. E' con i coetanei, grazie al gioco, che il bambino può ricercare dinamiche affettive analoghe a quelle famigliari, ristrutturando gli stessi ruoli, oppure, nella maggioranza dei casi, ricercarne differenziate fondando gli affetti su basi diverse assumendo ruoli diversi da ciò che avviene in famiglia. Ad esempio se in una famiglia esiste una supervalutazione di un eventuale fratello maggiore, il bambino giocando, al di fuori del contesto famigliare, con i suoi coetanei si trova a vivere le stesse esperienze sia di successo che di insuccesso riequilibrando così il suo senso di inferiorità.
Stare tra coetanei è anche un modo per impossessarsi dei comportamenti degli adulti, per abituarsi al controllo della realtà imparando a responsabilizzarsi e ad accettare quelle regole morali e di comportamento che sono la base di una corretta socializzazione.
Il gioco è, quindi, un'attività molto importante e che serve ad assolvere molte funzioni:
esplorazione: il bambino osserva il suo ambiente e ne fa conoscenza manipolando e toccando i vari oggetti;
acquisizione di abilità fisiche specifiche: tramite i giochi di movimento e di precisione;
fortificazione dell'organismo: anche in questo caso tramite i vari giochi fisico-motori;
aumento del senso di sicurezza e di autostima: attività ludico motoria, giochi di precisione e giochi sociali;
socializzazione: giochi di gruppo;
appropriazione dei ruoli sociali e sessuali degli adulti: giochi simbolici e giochi sociali dove si instaurano i vari ruoli differenziati tra maschi e femmine;
acquisizione di abilità logiche: giochi di costruzione, di fantasia e di regole.
Analizzando questo piccolo elenco si può notare che l'attività ludica, spesso bistrattata o relegata ad una visione strettamente agonistica, è non solo corretta ma fondamentale.
In un processo formativo l'attività ludica riveste, per l'appunto, un ruolo fondamentale.
Nei bambini più piccoli, ad esempio, si può pensare ad una serie di giochi volti a sviluppare le capacità individuali e la socializzazione. Questa seconda parte potrà essere affrontata organizzando giochi in coppia dove non si dovrà puntare ad una cooperazione obbligata ma, organizzando situazioni sempre nuove, i bambini si troveranno ad adottare azioni comuni.
Con l'aumentare dell'età crescerà il bisogno di socializzazione tramite l'identificazione con i propri pari. In questa fase i giochi saranno sempre più complessi e potranno coinvolgere la totalità del gruppo. Inizieranno a fare la loro comparsa anche le "regole" che verranno seguite e difficilmente cambiate. Si creeranno delle squadre, si inizierà ad evidenziare anche l'aspetto agonistico, che altro non è che una forma più adulta e matura del gioco. Esempio di quanto esposto ora lo si può trovare in quelle situazioni che si attuano in palestra, o all'aperto, dove si formano squadre per confrontarsi, in gruppo, in giochi che al tempo stesso sviluppano quelle capacità coordinative fondamentali nella crescita. Nel gioco il bambino imita l'adulto, ma evitando al tempo stesso le responsabilità dell'adulto: quando il bambino gioca i confini tra fantasia e realtà sono aboliti, crea situazioni immaginarie che affronta e padroneggia, riuscendo in tal modo a sopportare e superare l'ansia delle situazioni reali.
Compito dell'istruttore, in questo caso, sarà quello di abituare l'allievo a vivere in modo tranquillo e non traumatico questo nuovo salto di qualità. Rendere l'agonismo un qualcosa di strano che non è più gioco ma qualcosa di diverso potrà portare il futuro atleta a vivere lo sport in maniera negativa ricercando con altre vie (doping) la propria realizzazione.
L'AGGRESSIVITA' COMPETITIVA
Alla base del comportamento agonistico, ci sono i bisogni di affermazione, il desiderio di emergere e di rassicurarsi circa le proprie capacità, in sintesi l'agonismo è un comportamento aggressivo, intendendo l'aggressività nella sua accezione positiva di assertività, ovvero la capacità di modificare l'ambiente rispetto alla possibilità di prendersi uno spazio vitale e impadronirsi delle cose.
L'essere umano sviluppa una certa dose di aggressività fin dalla nascita, la stessa nascita è un evento aggressivo, per uscire da un contenitore (utero materno) il bambino deve "rompere" qualcosa o comunque forzare una situazione di staticità, lo stesso vale per la fase della masticazione, per nutrirsi bisogna frantumare con i denti il cibo necessario all'alimentazione, infine, anche il pianto, come modalità di comunicazione volta a richiamare l'attenzione su di sé, ha una componente aggressiva.
L'aggressività quindi è necessaria per la conservazione della specie, è legata alla vita (pulsione di vita), infatti l'aggressività non espressa può portare a comportamenti autolesionistici, fino ai limiti estremi del suicidio (pulsione di morte) .
Soprattutto nel caso di persone con handicap acquisito il senso di sconfitta nei confronti della vita è molto forte e il desiderio di autoaffermazione può esprimersi mediante la rabbia, l'ostilità, i comportamenti aggressivi e i sentimenti di rivalsa verso gli altri.
Ma l'aggressività necessaria alla persona disabile per affermare se stessa in un ambiente competitivo, e quindi non propriamente favorevole, può essere espressa in forma ritualizzata nello sport, che diventa campo di allenamento non solo fisico ma anche psicologico.
L'aggressività competitiva viene canalizzata nello sport agonistico: confrontandosi con degli avversari, c'è la possibilità di ingaggiare una lotta e quindi di rivaleggiare per vincere, nel rispetto delle regole, senza che ne consegua una distruzione dell'altro e quindi la violenza. Si impara inoltre ad accettare la sconfitta, a gestire la rabbia derivante dalla frustrazione e a non lasciarsene sopraffare.
La sconfitta non esiste senza vittoria, è l'altra faccia della medaglia, vista in questa prospettiva essa diventerà uno stimolo per progredire, con conseguente rafforzamento dell'autostima per disabili e non.
LA COMUNICAZIONE
Un aspetto di notevole importanza nel lavoro di un educatore sportivo è la comunicazione.
Il corpo, come già espresso inizialmente, svolge anche una funzione comunicativa, inizialmente la madre ed il bambino comunicano attraverso scambi corporei, vocalizzi, sguardi, pianto e sorrisi, modificazioni toniche e posturali, successivamente la frustrazione derivante dall'assenza della madre genera il pensiero che riempirà questa mancanza e farà insorgere nel bambino il desiderio di comunicare. Al dialogo tonico si aggiungerà quello gestuale, la postura diventerà movimento via via sempre più complesso in relazione anche allo spazio e al tempo, parametri base per il successivo sviluppo del linguaggio parlato. Dalla comunicazione dipendono sia le fasi dell'apprendimento che quelle relazionali con il conseguente cambiamento comportamentale motorio e di un allievo, nella direzione auspicata dall'allenatore, e di soggetti operanti all'interno di un gruppo.
Avere una situazione attentiva sull'aspetto comunicativo non significa trascurare altri importanti aspetti di carattere psicologico quali la determinazione, la motivazione, l'ansia etc., ma semplicemente affrontare prima un elemento che può orientare il rapporto tra due persone in senso positivo o negativo. Bisogna aggiungere inoltre, che negli sport individuali questo rapporto è sicuramente più stretto, diretto e coinvolgente rispetto agli sport di squadra.
La comunicazione è l'atto legato al passaggio di un certo materiale, noto ad uno, verso altri soggetti che si vogliono rendere edotti in tal senso. E', quindi, un qualcosa che non si fa a spese degli altri ma in collaborazione con gli altri. La comunicazione si definisce sempre a due vie, ossia colui che comunica riceve un feedback dagli altri. Anche quando si impartisce un ordine il feedback è dato dal fatto che questo può essere eseguito oppure si nota il rifiuto all'esecuzione.
La classificazione classica prevede che la comunicazione venga divisa in "verbale" (CV) e "non verbale" (CNV). Secondo molti autori l'aspetto verbale della comunicazione incide per circa il 7% del messaggio inviato, mentre il rimanente 93% si compone dei vari aspetti non verbali basati sul tono ed utilizzo della voce (messaggi paraverbali) e sul linguaggio del corpo (postura assunta durante il colloquio).
La CV avviene quando una persona (che chiamiamo Emittente) esprime un concetto (che definiamo Messaggio) ad un terzo soggetto (chiamato Destinatario). Questi passaggi non avrebbero nessun significato se colui che invia il messaggio non valutasse il contesto sociale in cui opera, al fine di trovare un contatto reale, scegliendo il codice comunicativo più idoneo.
Comunic-azione vuol dire letteralmente azione in comune. L'azione rappresenta l'identità di una persona nel momento in cui si trova di fronte ad un'altra persona quindi si estrinseca all'interno di una relazione io-tu-ambiente. L'azione può esprimersi a diversi livelli corporeo, sensorio, emozionale, immaginativo, cognitivo-verbale ed è importante, all'interno della relazione prestare attenzione all'agire della persona stessa, ma anche a quello dell'allenatore. Si cercherà attraverso l'allenamento di far vivere al soggetto un'esperienza relazionale positiva a diversi livelli al fine di raggiungere l'obiettivo prefissato.
Tutti i soggetti dovranno quindi sviluppare la consapevolezza, momento per momento all'interno di quella relazione, dei propri vissuti corporei, sensori, emozionali, immaginativi, cognitivi.
La comunicazione, inoltre, può essere efficace o ostacolata a seconda di come gli stati emozionali dell'Io, secondo la teoria transazionale, entrano in relazione.
Secondo questa teoria il nostro Io è suddiviso in tre parti: genitore (normativo), adulto (logico) e bambino (emozionale).
Per Stato dell'Io si intende un'insieme di pensieri e vissuti emotivi, e quindi dei comportamenti riferiti a uno specifico momento o aspetto della vita della persona (figura 4).
Lo Stato dell'Io Adulto è la manifestazione della propria parte adulta, cioè di quella dimensione dell'Io che è in contatto cognitivo e affettivo con il "qui e ora".
Lo Stato dell'Io Genitore corrisponde alla parte genitoriale introiettata e si esprime all'esterno riproponendo modelli comportamentali che l'atleta ha incorporato dalle differenti figure genitoriali con cui è stato o è in contatto (dalla mamma all'allenatore a un compagno di squadra particolarmente carismatico). All'interno lo Stato dell'Io Genitore si manifesta sotto forma di ordini, divieti, incoraggiamenti, minacce che l'atleta ha incorporato da fonti esterne e che ripropone a se stesso in un dialogo interno.
Il terzo Stato dell'Io è lo Stato dell'Io Bambino, costituito dalle esperienze arcaiche vissute e immagazzinate dall'atleta nei suoi anni formativi.
Quando si comunica si invia a livello verbale un messaggio a proposito del "qui ed ora". Nel contempo passa un altro messaggio, di solito del tutto inconscio, ed è un messaggio di tipo transferale. Vedendo nell'allenatore una figura in qualche modo genitoriale, ossia protettiva, si cerca di stabilire con lui un tipo di relazione che è in qualche misura ripetitiva, per similitudine o per opposizione, alla relazione che una persona ha avuto con uno dei genitori reali. Alla base di ogni forma di interazione esiste come unità di rapporto sociale la "transazione". Una transazione consiste di due "unità di riconoscimento" o "contatti". Sono chiamate transazioni piuttosto che interazioni perché sia l'una che l'altra persona coinvolta ottengono qualcosa in cambio, non foss'altro che un breve segno di riconoscimento. Ma ciò una persona (così come il suo interlocutore) cerca è il rinforzo alla propria identità, un sostegno al suo tipo di equilibrio psicosomatico.
1 comentario
Jordan Jumpman -
http://www.nikeairjordan.cc/jordan-jumpman-59/