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La Bitácora del Dr. Ucha

CHI E’ E A CHE COSA E’ UTILE LO PSICOLOGO DELLO SPORT

Prof. Diego Polani

Presidente Nazionale Società Professionale Operatori in Psicologia dello Sport e delle Attività Motorie

Cattedra di Psicologia dello Sport Facoltà di Medicina e Chirurgia Firenze - Corso di Laurea in Scienze Motorie

Cattedra di Psicologia dello Sport Facoltà di Medicina e Chirurgia Firenze - Corso di Laurea Specialistica in Scienze e Tecnica dello Sport

Il problema di una reale conoscenza su ciò che può fare o non fare una determinata categoria professionale è sempre di più attuale ed importante. Spesso con determinate professioni si tende, per ignoranza popolare, ad affibbiare una serie di competenze professionali come si fosse tuttologi, cosa che da svariati anni proprio le Università con i loro ordinamenti e le società professionali specifiche stanno combattendo con forza.

Sicuramente una delle professioni più inquinate da queste confusioni di ruolo è proprio la psicologia che viene vissuta principalmente dall'utenza, in maniera errata, come una professione esclusivamente sanitaria, oppure come una professione dove chiunque, laureato in tale materia, può spaziare da un'area all'altra. Questo problema riguarda, di fatto, le fantasie, le aspettative e i pregiudizi relativi al servizio offerto.

L'idea del classico modello "medico", che riduce la prestazione dell'esperto al diagnosticare un male e proporre una ricetta che "serve per curare" il paziente, al fine di "eliminare" questo male ed ottenere una guarigione, condiziona spesso le fantasie più o meno consapevoli di chi chiede aiuto ad uno psicologo, anche se in questo caso si dovrebbe fare affidamento ad uno psicoterapeuta. Questo avviene a maggior ragione negli atleti, o in coloro che, ricercando un intervento per i loro atleti, si trovano a richiedere un aiuto psicologico. Spesso la fantasia popolare, come già accennato, è quella del modello medico ed è ancora più pericolosa perché gli atleti molte volte non hanno nessuna problematica psicopatologica e giustamente rifiutano l'idea di essere "curati" per aspetti psicologici che "non li riguardano". L'equazione in questo caso è "psicologo-medico" uguale "malato", e la conseguenza di ciò una serie di reazioni difensive con un rifiuto della figura dello psicologo dello sport. Questo modo di vedere la psicologia dello sport è purtroppo la conseguenza di un retaggio storico esclusivamente italiano, ma in parte ancora attuale, che vuole, proprio per questa forma di tuttologia opportunisticamente cavalcata da coloro che hanno una formazione esclusivamente clinica e/o medica e che vogliono entrare in questo mondo, medicalizzando qualsiasi intervento psicologico definendolo "clinico". Altre situazioni invece, vedono alcune persone immaginare assurdamente l'intervento dello psicologo come l'ultima spiaggia, prima della competizione importante, quasi fosse un "mago" con poteri non ben definiti. In questo caso è possibile osservare casi trattati da operatori non preparati e non formati nella specifica specializzazione (o addirittura personaggi quali i motivatori, i coach o i counselor che spesso operano senza titoli universitari e senza preparazione scientifica ma essenzialmente senza regole ben definite e senza la supervisione di uno psicologo) dove, nella maggior parte dei casi, gli atleti subiscono una sorta di lavaggio del cervello senza di fatto andare ad analizzare più profondamente l'umore e le emozioni, facilitanti ed inibenti, che spesso sono alla base di un lavoro più profondo e duraturo. Ultimamente si sono letti casi di atleti che sono stati convinti di aver superato i loro problemi con semplici formulette da ripetersi mentalmente, ma che poi in realtà continuavano ad accusare i loro sintomi mascherati da piccole alterazioni fisiologiche. Questo sicuramente alla lunga crea una diffidenza nella figura professionale dell'operatore in psicologia dello sport.

Queste anomalie le si possono notare anche nelle altre specializzazioni psicologiche. Quante volte si richiede ad uno psicologo clinico di dare indicazioni o fare formazione in ambito lavorativo, oppure in quello sportivo e/o diagnostico. Ogni professionista ha una sua specifica specializzazione post universitaria, si spera, ed è questa che dovrebbe fare fede in ambito professionale. Eppure oggi, un po' per mancanza di lavoro, un po' per ignoranza, si notano utenze (e qui prevale l'ignoranza) che richiedono competenze specifiche a chi non le ha, e crescono "professionisti" che s'improvvisano, per quanto già detto pocanzi, psicologi del lavoro, o dello sport, clinici, ecc., senza dare come conseguenza servizi realmente professionali e, come ovvia conseguenza d'immagine, riducono la nostra professione ad una sorta di carnevalata. Oggi più di prima vediamo, ad esempio, corsi di formazione professionale che trattano problemi inerenti l'assesment, la gestione risorse umane, i rapporti relazionali con i clienti interni ed esterni, che vengono trattati con la stessa modalità con cui si conducono gruppi terapeutici, creando così solo confusione anche se si rinforzano quelle fantasie "magiche" che ogni corsista spesso si ritrova a cercare per appagare suoi stati emotivi e comportamentali specifici. Ma non scordiamoci, infine, di coloro che creano, ad esempio nello sport, dei setting terapeutici con gli atleti senza di fatto gestire il loro vero problema agonistico.

E allora lo psicologo dello sport che competenze ha? Che può fare? Come lo fa? Si è in grado di capire se è bravo nel suo campo? Da che lo si può capire? In che caso si potrà dire che il suo lavoro "funziona" ed è propositivo?

Questi sono i classici interrogativi che si pongono ancora oggi atleti, allenatori e dirigenti.

Un professionista preparato è sicuramente quello che informa in maniera puntuale e precisa il suo committente con una proposta di obiettivi che siano e capibili e raggiungibili.

Ricordo che nel caso in cui una società sportiva, una federazione o il singolo allenatore siano il "committente" dell'intervento dello psicologo dello sport sui loro atleti, spesso sono nella condizione di dover convincere il loro atleta che questo supporto serve, ma, di fatto, non hanno ben chiaro il tipo di prestazione che l'esperto in psicologia dello sport può offrire.

Dirò di più, nell'ambito della formazione, sia dei tecnici che dei dirigenti sportivi, sarebbe auspicabile che lo psicologo, sicuramente formato in psicologia dello sport e possibilmente in alcuni casi anche in psicologia del lavoro (proprio per cogliere quegli aspetti che sono di indole lavorativa in un mondo particolare come quello sportivo), dovrebbe sviluppare le sue lezioni proprio per far capire gli effetti e i presupposti di un intervento professionale, e non, come spesso avviene, per avere una passerella con la quale stupire di effetti speciali i discenti del momento.

E' dunque importante informarsi sulla reale formazione e preparazione degli eventuali professionisti, il tutto dimostrabile tramite diplomi e curriculum, e da oggi dall'iscrizione ai registri (si veda il sito www.psicosportprofessionale.eu) della Società Professionale Operatori in Psicologia dello Sport e delle Attività Motorie, che è al momento l'unica società professionale in Italia e in Europa formata in base alle normative vigenti in Europa dal 2005 (dispositivo europeo 36/2005 sulla riforma delle professioni). Dispositivo recepito in Italia con il decreto attuativo che il 26 febbraio 2008 è stato varato dal ministero della giustizia, di concerto con quello delle politiche comunitarie, e che recepisce anche il relativo decreto legislativo "qualifiche" (d. Leg.206/2007), quest'ultimo appunto approvato dal consiglio dei ministri il 23 ottobre 2007.

Lo Psicologo dello Sport o il Coach hanno in definitiva il compito di valutare e assistere, senza fare psicoterapia, tutti gli utenti sportivi e motori tramite tecniche che prevedano una valutazione psicologica che possa permettere di arrivare ad una conoscenza approfondita e reale del soggetto.

Tutto ciò al fine di prevedere quelli che in gergo professionale vengono definiti punti di forza ed "aree di miglioramento in termini di abilità mentali" (U. Manili), al fine di ottimizzare quelle strategie mentali che vengono normalmente utilizzate. Ma non solo, ciò dovrà portare il soggetto ad avere obiettivi realistici, e grazie a ciò il professionista si troverà ad usare quegli strumenti e metodi secondo lui più idonei anche in funzione del profilo psicologico (pensieri, emozioni, bisogni, aspirazioni ...) precedentemente acquisito non solo con i test ma anche con i dovuti colloqui.

Lo psicologo dello sport, secondo quanto scrive Giuseppe Vercelli, è prima di tutto lo psicologo della normalità che opera a livelli eccezionali, cioè "colui in grado di servire la genialità, intesa come potenziamento di facoltà che gli individui utilizzano sempre a livelli minori".

L'operatore professionale in psicologia dello sport diventa quindi un facilitatore e mediatore dell'ottimizzazione della prestazione, laddove si operi con atleti, cercando nella normalità, e di conseguenza, abolendo quella parte esclusivamente clinica che tratta solo di patologia, al fine di esaltarla per suscitare e stimolare quelle che vengono definite intelligenza motoria e intelligenza agonistica.

E' inoltre importante ricordare che oggi, più che mai, l'intervento dell'operatore in psicologia dello sport, ad altissimo livello, dovrebbe essere indirizzato verso i tecnici al fine di operare un lavoro di consulenza sul campo. Ossia individuare le singole particolarità legate alla motivazione, all'attivazione, ecc. di ogni atleta per consigliare il tecnico di volta in volta su come relazionarsi e, quindi, indirizzare le tecniche di allenamento in funzione degli obiettivi preposti. Questo perché spesso si è notato che la cattiva performance è guidata da una sorta di leadership non positiva del tecnico nei confronti del gruppo di atleti che assorbendo la negatività inconscia del tecnico stesso arrivano a fare prestazioni non ottimali.

In ogni caso la gestione dei rapporti interpersonali deve essere sviluppata ed allenata per migliorare quella competenza lavorativa chiamata relazionale che ci può permettere di essere accettati e seguiti nel nostro lavoro, ricordandosi, ad esempio nel mondo sportivo di alto livello, che noi operiamo in funzione di una richiesta e non per comparire sui media al posto dei nostri "clienti".

Per raggiungere questi risultati gli operatori in psicologia dello sport e delle attività motorie si avvalgono, quindi, di metodi scientifici validi, devono rispettare i limiti degli sportivi e rispondere in modo competente, serio e soprattutto franco alle domande ed ai dubbi che sorgono, devono essere trasparenti e quindi pronti ad ammettere i loro limiti e rilevare la fonte da cui provengono le loro competenze. Devono infine avere anche una formazione culturale di base "clinica" al fine di evitare di cadere in interazioni pericolose (ad esempio le classiche triangolazioni) e per riconoscere, laddove sia presente, un'eventuale patologia da un presunto comportamento agonistico inadeguato; in questo caso è compito del professionista avvisare il committente che è il caso di far intervenire un terapeuta, ma ciò non significa che l'operatore in psicologia dello sport debba essere definito clinico.

Infine ricordo che l'aspetto più importante è quello di far capire ai nostri committenti che che non siamo "maghi" e che il nostro è un lavoro di sinergia con le altre professionalità che lavorano in aiuto ai tecnici in funzione del risultato atletico da un lato o motorio con finalità di benessere dall'altro, e non per un nostro appagamento narcisistico.

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